2021-06-13
CAPODIMONTE – Nonostante abbia da poco tempo scelto di cambiare la vita di città spostandomi in un paesino, sono stata costretta a salvaguardami da un maniaco, attivando al primo campanello d’allarme la rete di sicurezza. Non voglio essere l’ennesima vittima della violenza di genere.
Mi chiamo Sara e quasi un anno fa decisi di trasferirmi a Capodimonte, un bellissimo paesino in riva al Lago di Bolsena perché scelsi di continuare a studiare all’Università immersa nella Natura e in un posto che credevo tranquillo. Mi ambientai in pochissimo tempo rafforzando le amicizie che già avevo e costruendomene di nuove, tra un aperitivo in riva al lago e una camminata in spiaggia.
Purtroppo, come ogni realtà, anche questo piccolo paesino nascondeva degli scheletri nell’armadio. Questi scheletri, però, non si limitavano a rimanere sopiti nel passato delle persone, ma tornavano a cadenza regolare a importunare le donne del paesino e, come sospettavo dopo aver appreso la vicenda direttamente dalle mie amiche, era soltanto una questione di tempo che arrivasse il mio turno.
La mia storia non ha nulla di speciale ed è simile a tante altre: complimenti non graditi da un perfetto sconosciuto espressi soltanto quando mi incontrava da sola e per questo motivo ogni volta che lo incontravo cambiavo strada; anche se variare il percorso significava rinunciare ad una passeggiata al lago e tornare subito a casa. Una piccola rinuncia, pensavo, per il bene della mia tranquillità, ma in realtà era una privazione scaturita dalla paura di una persona che sapevo essere pericolosa.
Tante, infatti, sono le ragazze che mi hanno raccontato le loro brutte esperienze e volevo evitare a tutti i costi di percorrere il loro stesso incubo dato che i semplici apprezzamenti divenivano sempre commenti volgari accompagnati dall’espressione diretta delle fantasie sessuali dell’individuo e, in caso di rifiuto, si tramutavano in comportamenti aggressivi. In alcuni casi, come mi hanno spiegato, sono diventati veri e propri tentativi di stupro.
Ero convinta che la tattica di “cambiare strada” fosse sufficiente, ma a Capodimonte le strade sono poche e in alcuni casi, come quando si scende dal pullman, per raggiungere casa vi sono dei percorsi obbligati da seguire. In quelle situazioni cercavo di eludere la persona mostrandogli poco interesse o accelerando il passo, ma non bastava a sottrarmi dai commenti fastidiosi mentre, probabilmente, studiava la strada che prendevo. Forse è un caso, ma con il tempo ho sempre incontrato questo scheletro dell’armadio capodimontano sempre più vicino alla mia abitazione fino a quando, fumando una sigaretta sull’uscio di casa, l’ho trovato davanti ai miei occhi.
Volevo scappare lontano, per evitare a tutti i costi che capisse dove abitavo, ma avevo lasciato la chiave inserita nella serratura e rimanere ferma, con una calma apparente, era l’unica cosa che potessi fare. Il caso vuole che non c’era anima viva, solo io e lui ed avevo paura che potesse farmi del male e intrufolarsi nella mia casa.
Ho dovuto subire commenti schifosi sul mio aspetto fisico e rimanere inerme mentre mi incitava animatamente ad intrattenere rapporti sessuali, per lo più orali, con lui nonostante il mio rifiuto e il tutto, ovviamente, mentre utilizzava un linguaggio da farmi venire i brividi. Non contento mi invita a casa sua e declino la sua non gentile offerta e mi risponde “allora non me la dai, me ne vado”, perché nei soggetti del genere le donne sono solo pezzi di carne, buchi da occupare con prepotenza per soddisfare le voglie del momento. Come se non bastasse, veloce e disgustoso, mi prese la mano e me la baciò sorridendomi con una sinistra luce negli occhi.
Contenta che finalmente se ne stesse andando, ho aspettato la sua completa sparizione prima di rincasare sperando che non capisse quale fosse effettivamente la mia casa, ma appena entro sento bussare alla mia porta e riconosco la sua scheletrica sagoma dietro i vetri.
Un semplice “toc toc” durato un rapido istante, tuttavia non così breve per me che ho visto, letto e ascoltato troppe storie di incubi iniziati nel mio stesso modo e anche se continuavo a ripetermi “è finita, se ne è andato” non riuscivo a sentirmi tranquilla nella mia stessa casetta.
Nei giorni successivi mi sono rivolta al centro antiviolenza Penelope, a Viterbo, e ai Carabinieri di Capodimonte. Ho cercato di convincere le altre vittime di questo scheletro dell’armadio di Capodimonte a denunciare con me, ma tutte mi hanno risposto che avevano paura. Un’emozione che capisco e al tempo stesso non accetto, perché solo denunciando si può ottenere la giusta protezione e mettere fine a questa storia che, sempre da come mi hanno raccontato, dura da anni nel paesino.
I Carabinieri, in particolar modo il Maresciallo, non solo mi hanno tranquillizzata quando sono entrata nella loro caserma, ma continuano a farmi sentire protetta con controlli e telefonate. Fondamentale è stato anche il supporto dei miei amici che oltre a sostenermi in questo percorso mi hanno anche offerto un posto dove dormire. Però quest’ultimo l’ho rifiutato: nonostante la mia paura ho deciso di rimanere nella mia casetta, quel pervertito mi ha privato già abbastanza della mia quotidianità.
Non mi sono trasferita a Capodimonte per essere alla mercé del maniaco di turno e attivando immediatamente una rete di sicurezza già esistente (amici, forze dell’ordine e centri antiviolenza) confido che la mia battaglia andrà a buon fine. Non bisogna aver paura di denunciare, vivere come esseri umani liberi è un diritto di tutti e troppe sono le donne violentate eo uccise perché non hanno attivato tempestivamente la rete di sicurezza.
Ringrazio personalmente i miei amici, i Carabinieri di Capodimonte e il Centro Antiviolenza Penelope per essermi costantemente vicino, per aiutarmi e soprattutto per non farmi sentire sola.
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